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Questa nuova versione di Wonderful Monster è stata inaugurata con il Cover Reveal di Trentatré scritto da Mirya, un battesimo del blog di tutto rispetto (c’entra pure D.!) che non poteva continuare se non seguendo il Blog Tour del libro.
6 tappe che vi hanno tenuto – e vi terranno – compagnia dal 20 novembre al 4 dicembre approfondendo di volta in volta un aspetto specifico del libro.
Oggi è il mio turno e la mia immensa curiosità non solo verso le storie ma i meccanismi che scattano nello scriverle mi ha fatto scegliere come tema il “dietro le quinte” di Trentatré, ciò che c’è ma non si vede.
Ed è da questo che nasce una breve intervista a Mirya per darvi qualche elemento in più su cui riflettere. Ma prima, ecco la trama e la copertina.
Trentatré sono i giorni che Dio Si impegna a trascorrere sulla terra, senza i Suoi poteri, prima che Suo Figlio acconsenta ad aiutarLo nell’Apocalisse; ma scopre subito che l’umanità è un abito scomodo da indossare.
Trentatré sono i giorni di cui Grace dispone per persuadere quel vecchio pazzo convinto di essere Dio che l’universo non deve finire; ma c’è un asino dagli occhi azzurri a complicarle la vita e a lei non resta che cercare di trasformarlo in un unicorno rosa.
Trentatré sono i giorni in cui Michele deve affrontare i suoi demoni, per liberarsi del marchio di Caino e imparare di nuovo ad avere fiducia; ma c’è una rossa intenzionata a combattere contro di lui che invece forse potrebbe combattere al suo fianco.
Trentatré sono i giorni necessari a cambiare per sempre le vite del vecchio Giò, di Amir, di Juliette e di tutti coloro che ruotano attorno allo stesso locale, quel locale che in fondo può assomigliare ad una casa, come loro in fondo possono assomigliare ad una famiglia.
Perché la fortuna non è positiva né negativa, le cose migliori accadono per caso e il mondo è pieno di incastri.
1. Hai dichiarato più volte di essere atea, come ti è venuto in mente di scrivere questa storia il cui protagonista è nientemeno che Dio?
Come disse qualcuno di famoso (così famoso che non ricordo chi fosse) e come ripeto in Trentatré, gli atei sono forse tra le persone che parlano più di Dio; io penso davvero sia il nostro modo di tirargli le trecce. Comunque, le storie non mi vengono in mente: mi appare in testa una scena, e se sono fortunata (ma non lo sono quasi mai) è la scena d’apertura, se sono sfortunata (e per me la ruota gira sempre così) è una scena qualunque a metà o addirittura alla fine del libro, e a quel punto la metto giù e poi attendo per vedere dove mi porta, se mi porta da qualche parte e se riesco a costruirle attorno e davanti un romanzo. Eppure, complice la treccia di D, di Trentatré mi è venuta in mente proprio la prima scena, quel prologo assurdo nel mondo sovrannaturale, mentre ascoltavo One of us, come ormai sanno anche i muri, e sono dovuta correre al computer a scriverla, sebbene in quel periodo stessi dietro ad altre due storie.
Non avevo il minimo indizio di dove andasse a parare Dio, così ho messo da parte le pagine e sono tornata al mio lavoro precedente, convinta di dover procedere con esso come originariamente pianificato. Ma i figli, di carne e di carta, non rispondono bene ai tuoi piani, come ha imparato anche Gioia: il giorno dopo è arrivata Grace, e non c’è più stata storia. Quindi: a farmi parlare di Dio sono state una canzone e Grace. Ma a ben guardare, non ho mai parlato di Dio, in Trentatré, come evidenziato nel read along ancora in corso del libro: ho parlato degli uomini, e di Dio solo nel momento in cui ha provato ad essere davvero un uomo. Da atea, non ho alcun problema con chi ha fede, anzi: mi sono arrivati, come sai, numerosi messaggi di persone che hanno ritrovato la fede leggendo questo libro; in effetti io ho dei problemi solo con certe norme religiose che vogliono limitare la realizzazione della felicità altrui e probabilmente le persone che hanno ritrovato la fede leggendo il mio libro avevano gli stessi problemi e li hanno risolti più o meno come li ho risolti io: grazie a D. Come scrivo all’inizio, in questo libro ho fatto la pace con lui, e me ne sono accorta solo alla fine, quando ho visto la differenza di toni tra la prima e l’ultima scena nel mondo sovrannaturale, la dispersione di ogni traccia di rabbia. Non c’è bisogno di credere in qualcuno per fare pace con lui: basta farlo diventare un tuo personaggio. Ma tramite D ho fatto la pace con qualcuno in cui invece credo: l’umanità.
E se poi vogliamo davvero sapere se sia nato prima l’uovo o la gallina: è nato prima mio figlio. Senza di lui non ci sarebbe mai stata grazia, non ci sarebbe mai stata la pace con D.
2. Questa storia l’avevi già in mente prima di scriverla o si è costruita “strada facendo”?
Come ti dicevo, avevo in mente solo il prologo; poi solo Grace; poi pian piano sono usciti gli altri e quella che credevo una storia d’amore incentrata su due personaggi è diventata una storia corale e, quando è arrivato Giò Giò, una storia tutta sua. E ad un certo punto ho visto gli incastri, che non erano definiti sin dall’inizio, e questa è stata una bella sorpresa: ero già al quinto capitolo quando ho capito che Grace e Michele si erano conosciuti nel passato, ero a metà libro quando ho capito chi fosse il vecchio Giò; eppure, e qui ci vedo lo zampino di D, quando sono tornata indietro a sistemare in modo da far combaciare tutto, ho scoperto che tutto già combaciava; che avevo scritto le parole giuste per giungere agli incastri finali prima di conoscere quegli incastri; non mi ero mai divertita tanto a seguire le circonvoluzioni dei miei stessi personaggi. La fine, invece, è stata quasi da subito quella; ma ho a lungo tentennato perché credevo che molti lettori non l’avrebbero accettata. Poi però mi sono detta che ho vissuto sino ad ora senza mai aver paura di nulla e non era proprio il caso di cominciare alla mia età, per cui ho seguito quello che era il percorso prestabilito per Grace e per ogni altro personaggio, perché altrimenti il senso del libro mi si sarebbe polverizzato tra le dita.
Anche perché sono una self: uno dei lati positivi del pubblicarsi da soli è proprio poter seguire fino in fondo la propria idea, senza preoccuparsi delle vendite o delle preferenze del pubblico (almeno quando, come nel mio caso, hai già un lavoro); e dopo essermi messa l’anima in pace sono stata strappata da quella pace dalla valanga dei lettori, che hanno tutti accolto in blocco quel finale, approvandone il senso.
Mi concedo un momento sdolcinato per dire: io lì ho visto i fili e ho sentito la neve. Grazie.
Ma ancora non conosco il parere del mio lettore più importante: mio figlio, che sa di essere in quel libro ma per ora, grazie a D, non sa leggere. Quando imparerà, mi nasconderò dietro il t-rex gigante che gli ho comprato due giorni fa. L’ennesimo.
3. Qual’è stata la cosa più bella e quella meno bella con cui hai dovuto fare i conti nella costruzione e durante la stesura del romanzo?
La cosa più bella con cui ho avuto a che fare costruendo il romanzo, l’ho già detto ma non posso che ripetermi, sono stati i dialoghi tra D e il vecchio Giò; assomigliano un po’ a quelli tra me e mio marito, in effetti. Ma direi che tutti i dialoghi con D mi sono venuti giù senza un tentennamento, forse perché era molto tempo che li ripetevo tra me e me.
Abbandonò il retro e si diresse al bacone, a spillare una birra per il vecchio Giò. Una bionda, sperando che capisse l’antifona. O ancora meglio, che restasse nel retro insieme a D. Ma malgrado il nome del suo locale, non era mai così fortunato.
«E invece non è successo nulla, anzi, se l’è cavata benissimo, sia con i ragazzi che con i vassoi» disse il vecchio Giò, mentre entrambi i nonnetti lo raggiungevano, sedendosi all’altro lato del bancone. «Hai visto quanti bicchieri portava insieme?»
«Pareva uno dei miei angeli» sospirò D «Una tale grazia, proprio come dice il suo nome…»
«E com’era veloce con le ordinazioni?» insistette il vecchio Giò.
«Come le ali dei miei angeli.»
«E come ha mantenuto l’equilibrio, quando Amir ha cercato di farla inciampare?»
«In cielo a volte fanno degli spettacoli di equilibrio con le stelle che…»
Michele emise un gemito straziato. «Ma chi siete, i due vecchietti del Muppet Show? (…)»
La cosa più brutta, nel senso di dolorosa, è stata affrontare un discorso su cui temevo di compiere un passo falso, quello della sterilità; ho cercato di documentarmi adeguatamente, ma tutta la documentazione del mondo non può competere con l’esperienza, per cui in quel caso ho limato ogni parola e sperato per tutta la stesura di non andare oltre, di non esagerare, di non sbagliare, di non incrudelire; non ho avuto gli stessi timori con gli altri argomenti difficili del libro perché li ho sperimentati tutti, quindi sentivo di avere il diritto di parlarne, ma non avevo a conti fatti il diritto di parlare di sterilità, io che sono stata benedetta con un figlio. L’ho fatto, tuttavia, perché è qualcosa che vedo di frequente attorno a me, di cui credo si parli poco, qualcosa che si sottovaluta, e che, soprattutto in letteratura, si offende. Leggo molti romance e per me è terribile che la donna che all’inizio ha una diagnosi di sterilità alla fine se ne esca sempre con qualche miracolosa gravidanza grazie all’amore: vorrei che si limitassero un po’ i miracoli grazie all’amore nei libri, perché minimizzano gravi difficoltà o suggeriscono che in fondo permangano solo per chi non si è guadagnato un miracolo. Grace è sterile e resta sterile. E nessuno si è guadagnato più miracoli di lei.
La cosa più brutta, nel senso di difficile, è stata la scansione temporale e delle focalizzazioni. Mi sono accorta quasi subito di essermi infilata in una strettoia, con la narrazione giorno per giorno e tramite due soli punti di vista, ma non mi sono tirata indietro, nemmeno quando mi veniva da nominare D invano: credo che scrivere sia una continua palestra e in questo caso ho fatto allenamento. Mi sono dovuta inventare prolessi e analessi, ho dovuto tagliare dove avrei preferito continuare e continuare dove avrei preferito tagliare e spesso capovolgere scene intere perché necessitavo di un cambio di focalizzazione per non scrivere tutto un capitolo di una sequenza sola, ci ho dovuto infilare in mezzo pezzi del libro di Grace e dei ricordi suoi e di Michele, ma in fila, in modo che avessero linearità. Insomma è stato, come per D, un lavoro di incastro, ma io non ho potuto, a differenza sua, lasciare nulla al caso. Alla fine la cosa più brutta è stata anche una delle più belle, però, perché quando ho concluso il libro, con quella scena a focalizzazione multipla, mi sono seduta, mi sono versata da bere e ho capito che ce l’avevo fatta: avevo rispettato i confini iniziali, avevo vinto la mia sfida senza allentare le regole. E ho imparato qualcosa di nuovo. In un certo senso, ho segnato un’altra tacca sulla mia bacchetta (il mio Draco ne sarebbe orgoglioso, anche perché, a modo suo, è in questa storia).
Ho l’impressione di essere stata troppo seria nelle risposte: stai dormendo, vero? O stai ascoltando i gabbiani in volo sull’oceano?
(non è adorabile questa donna? ndr)
*** GIVEAWAY ***
Ed eccoci arrivati quasi alla fine di questa tappa, una fine coi fiocchi ovviamente. Perché? Ma perché Mirya ha pensato di legare questo Blog Tour ad un Giveaway. Il vincitore si aggiudicherà una copia di Di Carne e Di Carta (qui la mia recensione) il primo romanzo della scrittrice ferrarese. Come fare? Dovete seguire tutto il blog tour, ogni blog posterà nella tappa un’immagine, per vincere dovete azzeccare cosa rappresenta l’immagine e scovare in ogni figura una lettera che unita alle altre vi fornirà una parola. Le lettere sono nascoste, ma ci sono, grazie a @ciaradh_ e @kiadalpi che hanno ideato e realizzato il tutto.
Per vincere dovete commentare l’ultima tappa con entrambi i soggetti presenti nelle varie immagini. Ecco la mia immagine:
A questo punto, in attesa di terminare la lettura del libro (manca poco, eh) e scrivere la recensione, vi lascio con tutte le tappe del tour:
– 20 novembre: Anncleire su Please Another Book
– 23 novembre: @dituttocuore su Di Tutto Cuore
– 25 novembre: @ciaradh_ & @kiadalpi su Ikigai
– 28 novembre: @kikkasole su Testa e piedi tra le pagine dei libri
– 1 dicembre: Erika su Wonderful Monster
– 4 dicembre: @maistatachiara di Chiara Legge Troppo
Mirya è indiscutibilmente nata; altrettanto indiscutibilmente vive, per puro caso a Ferrara, con il figlio e il marito. Il suo desiderio di includere nel nucleo familiare il kindle si è scontrato con la definizione di essere umano, che pare non potersi estendere al reader, nonostante esso risulti più utile e affezionato di alcuni cosiddetti esseri umani.
Sempre a Ferrara, per non ammorbare il resto del mondo, Mirya insegna le materie umanistiche e la sopportazione del dolore agli alunni liceali, celandosi dietro al suo reale nome anagrafico che, come tutte le cose reali, non dice nulla della realtà.
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Ecco i libri di Mirya: